Dichiararsi bi sul lavoro: Francesca

Mi sono resa conto di essere bisessuale relativamente tardi: fino a 26 anni non mi è nemmeno passato per la testa che potessi non essere etero, e anche dopo la prima “epifania” mi ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme i pezzi del puzzle.

Se da una parte questo ha complicato un po’ le cose, dall’altra devo ammettere che mi ha consentito di affrontare alcune situazioni in maniera meno avventata. Quando ho iniziato a lavorare ero giovane e fidanzata con un uomo; di conseguenza non mi sono dovuta porre il problema di come dichiararmi con capi e colleghi, semplicemente perché credevo di non avere nulla da dichiarare. Poi, con la separazione dal mio ex, sono arrivati i primi problemi: dovevo dirlo in famiglia? Come? E agli amici, soprattutto quelli in comune? Un gran bel casino, insomma, ma che per fortuna si è concentrato quasi tutto nella sfera privata.

Già, perché nel periodo in cui ho rivoluzionato la mia vita mettendomi con Silvia lavoravo come freelance: traducevo e insegnavo inglese nelle aziende. Godevo di una libertà straordinaria, il che è stato un bene, perché all’inizio di questa relazione non avevo nemmeno io un’idea chiara di quale fosse il mio orientamento. La graduale presa di coscienza della mia bisessualità, però, procedeva di pari passo con l’approfondimento della conoscenza con i miei allievi. Era inevitabile, quindi, che prima o poi mi avrebbero fatto delle domande su di me.

Sapevo che non mi sarei sentita a mio agio né dando una risposta evasiva, né inventandomi un fantomatico convivente di nome Silvio. Quindi quando è successo ho scelto la via della sincerità, dando inizio a una serie di coming out che, a posteriori, so che mi hanno fatto un po’ da “palestra”.

Anche se a raccontarlo qui sembra tutto molto tranquillo e razionale, voglio chiarire una cosa: ogni volta ero terrorizzata. Non tanto perché temevo che mi potesse succedere qualcosa, quanto perché era una situazione che mi costringeva a fare i conti con il fatto che in realtà temevo molto il giudizio degli altri. O meglio, delle persone con cui avevo costruito un rapporto, anche se solo sul piano professionale; di ciò che pensava il resto del mondo, per fortuna, non mi sono mai curata più di tanto.

Nonostante sudassi a profusione mentre mi dichiaravo, le esperienze sono state quasi sempre positive. Al massimo mi sono beccata qualche battuta, soprattutto dagli uomini, ma ci tengo a dire che non è MAI stata offensiva o irrispettosa: più che altro so di avere suscitato curiosità, ma quella, finché è sana, non è mai negativa. Solo in un caso ho dato ascolto all’istinto di sopravvivenza e ho evitato qualsiasi accenno non solo al mio orientamento, ma a qualsiasi tematica LGBT: l’anello nazista e la collezione di armi di cui si vantava il mio allievo mi sono bastati per capire che forse era meglio “stare schiscia“, come si dice a Milano.

Il lavoro in azienda, invece, è un mondo completamente diverso, ma nel passaggio dalla partita IVA alla vita da dipendente ho avuto un grande vantaggio: l’agenzia di traduzioni che mi ha assunta era in Inghilterra, quindi ho colto la palla al balzo per partire già dichiarata con tutti. E ovviamente è filato tutto liscio, anzi: pian piano ho capito che avevo diversi colleghi non etero, anche se la maggior parte volevano rimanere nascosti. Ho il sospetto che il mio ex capo fosse segretamente omofobo, ma la nostra incompatibilità era talmente radicata e palese che forse quello era l’ultimo dei problemi…

Finché un giorno il capo delle risorse umane mi propone un posto nella sede di Bologna. Dopo averci riflettuto bene, io e Silvia decidiamo di ritornare in patria, ben consapevoli che avrebbero pensato tutti che fossimo pazze (era l’inizio del 2013 e la legge sulle unioni civili era ancora lontanissima). Due mesi prima del rientro decido di fare un salto a conoscere i colleghi, dato che avevo un appuntamento importante a Milano che non potevo rimandare: l’udienza di divorzio.

Probabilmente non ho dato il meglio di me in quell’occasione… La mia presentazione è andata più o meno così: “Ciao, sono Francesca, sono passata di qui perché ero già a Milano per divorziare, ah sì, però adesso ho una compagna, si chiama Silvia e tra due mesi ci trasferiamo a Bologna. Scusate, vado che tra poco ho il treno”.

Diciamo che in quel momento avevo altro per la testa, ma è andata bene che non mi abbiano presa per una psicopatica 😀

Il vero coming out però è avvenuto quando ero già qui, in maniera del tutto naturale – d’altronde ormai avevo alle spalle un tot di esperienze, e come dicono gli inglesi “practice makes perfect”. L’ufficio è piccolo e siamo in pochi; e anche in questo caso posso solo dire cose positive. Mi hanno vista tremare come una foglia dopo avere fatto coming out con i miei, esultare per l’approvazione delle unioni civili e piangere di rabbia quando mio padre mi ha detto che non avrebbe partecipato alla mia; mi hanno sentita incazzata con la comunità LGBT e incredula quando lo studio paghe non capiva di cosa stessi parlando quando mi riferivo a “mia moglie”; li ammorbo tutti gli anni da maggio in poi con “dai, venite al pride anche voi!” e mi sopportano quando arrivo a luglio stremata dalle parate. E soprattutto ci prendiamo in giro a vicenda e ci confrontiamo su tantissime cose, anche se tento sempre invano di fargli capire che no, essere bi non mi rende automaticamente la più porca dell’ufficio. Non ricordo chi abbia coniato l’aggettivo “BIADESIVA” come sinonimo di bisessuale, ma tra tutti è il mio preferito e lo brandisco con orgoglio ogni volta che qualcuno mi ricorda che ormai “ho scelto la patata”.

In sei anni ho raccolto innumerevoli aneddoti, ma credo che uno vinca su tutti… Recentemente stavamo parlando di coppette mestruali (perdonaci, T., unico uomo dell’ufficio: prima o poi verrà il ciclo anche a te e potrai capirci per davvero) e S. ci confida che, pur essendone entusiasta, ha ancora qualche difficoltà a individuare la cervice. Con un certo imbarazzo, tento di farle capire – restando inizialmente sul vago – che non è difficile localizzarla, perché ha una forma ben precisa che al tatto è inconfondibile. Seguono sguardi vacui, come a dire “non capisco”. Allora cerco di spiegare che in certe situazioni la cervice si sente benissimo, ma che non mi riferisco alla mia… Ingenua, S. esclama “Fra, allora mi devi aiutare a trovare la mia cervice!”.

“Ehm, S., non mi pare il caso”.

Insomma, non c’è una regola o un vademecum sul coming out sul lavoro che possa funzionare per tutti e in ogni situazione. Dipende tutto da quanto si è sereni con se stessi, dall’ambiente che ci circonda e dal clima generale con i colleghi. L’unica cosa che credo sia importante sottolineare è che il coming out non lo dovete a nessuno. Quindi se non ci sono le premesse per farlo in sicurezza o anche solo se non è ancora arrivato il momento giusto, non sentitevi in colpa: l’importante è che siate sereni con voi stessi, che stiate “dalla vostra parte”. Il resto, se viene bene, altrimenti va comunque bene così.

Di una cosa però potete stare certe, donne bi: alle colleghe non importa il vostro orientamento. Qualunque sia la vostra (e la loro) situazione sentimentale, anche se non provano alcun interesse per voi, l’unica cosa che le farà rimanere male davvero sarà sentirsi dire: “non sei il mio tipo” 😀

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