“Non sei più abbastanza queer, non ti vogliamo”. Riflessioni semiserie di un papà bisessuale

Questo pezzo l’ha scritto un mio amico di Twitter per la rivista online “The Queerness” e, appena letto, non ho potuto non pensare a questa mia rubrica su Bproud. Ne ho parlato a lungo con lui, Alex, che è stato più che lieto di condividere questi suoi pensieri con noi. Alex è un papà bisessuale, membro di Amnesty International UK LGBTI e ha un gran senso dell’umorismo. Ma davvero. Impossibile non sorridere delle sue tragicomiche avventure di papà queer ma è anche impossibile non cogliere l’amarezza tra le righe: non ho un posto dove mi sento veramente capito e lo cerco, disperatamente.

Mi fa piacere dedicare questo post non solo ai genitori bi, soprattutto quelli in coppia different sex, che sentono di non riuscire a trovare il loro ambiente e di non essere capiti all’interno di una società così rigidamente concepita, ma anche a chi, dall’altra parte, crea ambienti e comunità “alternative” talmente rigide da fare lo stesso errore che per decenni ha imputato agli altri: non rientri nei nostri schemi, non sei più abbastanza queer, non ti vogliamo.

E a chi si sente solo ricordo: gettate voi le fondamenta di nuove idee e nuove comunità. Da qualche parte si deve cominciare e perché non proprio da voi?

 

Traduzione di Anna; Revisione di Francesca.

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L’idea per questo articolo è nata come spunto per un* amic* che vuole avere dei bambini ma che desidera fortemente mantenere la sua identità queer. E’ un argomento al quale mi sento molto vicino in quanto persona bi piuttosto conosciuta nella mia città (Newcastle, UK), che viene anche vista regolarmente portare in spalla il proprio bimbo all’asilo.

La mia esperienza con gli spazi LGBT inglesi non è favolosa. Ci tengo a dirlo adesso così che si sappia. Non ho problemi ad ammetterlo quando ne parlo ma scriverlo ed espormi alla lettura di tutti non è per niente facile. Grazie al mio ruolo all’interno del network Amnesty International LGBTI ho l’occasione di lavorare insieme a numerorissimi richiedenti asilo queer, la gran parte dei quali non ha mai partecipato ad eventi LGBT prima di mettere piede in UK. Entro i confini dei loro paesi, molti di loro si trovano di fronte ad atteggiamenti violenti e non ci sono Pride o anche solo incontri informali che non comportino conseguenze tragiche e gravi rischi per loro stessi. Come reazione a questa situazione, i miei collaboratori richiedenti asilo approfittano, giustamente, di ogni possibile occasione per contribuire e immergersi nella stagione dei Pride britannici, ambiente nel quale io non riesco ad essere completamente a mio agio.

Se da una parte voglio che questo pezzo sia una celebrazione del perché ogni nazione abbia bisogno di spazi ed eventi queer come i nostri, dall’altra non riesco ad essere completamente convincente visto che questi nostri eventi hanno così tanti difetti quando si comincia a parlare di inclusione. Ce l’abbiamo quasi, questa inclusione, è lì sul palmo della nostra mano a disposizione di tutti da guardare con ammirazione; ed ecco che poi scivola via. Ogni nazione ha bisogno dei Pride, non mi fraintendete, io sono una grandissimo sostenitore di questa necessità. Questo pezzo non riguarda il bisogno di analizzare i Pride ma cerca di spiegare le mie personali difficoltà nel trovare un legame con la mia stessa comunità; in parte perché sono bisessuale, in parte perché sono un uomo molto religioso ma soprattutto perché sono sposato e sono padre.

Diamo un’occhiata alla questione genitorialità. Forse la mia apparente instabilità all’interno della comunità queer trova le sue radici nella mia “atipicità” nell’essere queer. In base ai dati in UK il 2% della popolazione è LGBTQ+ e di questi lo 0,8% sono bisessuali (Office for National Statistics, 2016). Io mi trovo in un bacino leggermente inusuale delle mia comunità visto che ho una relazione con una donna cis e quindi, come nucleo, non rientriamo in quegli schemi in cui vengono classificati gli spazi queer visto che sembriamo eterosessuali. Più del 70% delle persone queer sono single. Questo non vuol dire che non frequentino persone, ovviamente, ma “single” come opposto di sposato e “sistemato” con due bambini in una casa semi indipendente in periferia.

La mia famiglia rappresenta il classico nucleo familiare eterosessuale per il quale “Center Parcs” (azienda inglese proprietaria di numerosi centri vacanze a stampo “naturalistico” NdT) va tanto pazza, accogliendoci nei loro ghetti bianchi in centri vacanze nel bel mezzo di foreste finte. Se Ikea è “la mecca gay” con il suo sciame di battibeccanti coppie same sex che discutono inutilmente sull’arredamento d’interni, allora Center Parcs è quello che io chiamo affettuosamente “Eterolandia”. Per chi di voi gente queer non è si è mai avventurata in un queste oasi di pace, è praticamente un resort dai prezzi esagerati per famiglie benestanti in cui entrambi i genitori lavorano, sparsi in giro per la nazione in foreste costruite praticamente all’uopo. Se ti fa piacere pagare 5 sterline e 20 per una pinta di birra sotto una palma nel Lake District allora vai, hai trovato il posto per te! Io ci scherzo ma ogni volta che passo del tempo in posti come questo, mi sento profondamente a rischio e rasento il livello massimo di nevrosi. La mia ansia raggiunge il picco e comincio a sudare. Mi sento come un finto etero che gioca a fare “l’ordinario ragazzo del nord” e che, da un momento all’altro, esplode e urla “di solito preferisco gli uomini a letto! E il mio film preferito è “Eva contro Eva!”.

“Forse lui è solo gay e non in pace con se stesso”. No, credetemi, sono bisessuale e felicemente sposato ma è proprio qui che sta la complessità della mia identità sessuale con la quale molte persone possono riconoscersi. Non è lampante e non è rigido o restrittivo in alcun modo visto che io sono attratto da chi sono attratto. Non c’è sempre uno schema. Per contrasto la mia identità come genitore è molto più restrittiva e rigida. Io non “spengo” questa mia parte così semplicemente e ovunque io vada, solitamente, vanno anche i miei bambini. Da persona che ha frequentato, con piacere e per molti anni, tanti tra i luoghi di incontro gay più “estremi”, adesso sento di dover riconsiderare l’appropriatezza di certi luoghi e trovarne di più tranquilli per trovare una connessione con la mia comunità. La strada più ovvia e migliore per creare legami con persone simili senza andare nei locali è incontrarsi per qualche birra la sera o uscire per uno snack leggero. Nel mio caso si tratterebbe di un brunch perché resto saldamente legato agli stereotipi e ancora non sono entrato nel tedioso tunnel delle serate a base di vino e formaggio. Datemi tempo.

E a proposito di brunch, solo qualche giorno fa mi sono offerto di portare con me i bambini ad incontrare un amico, così da permettere alla mia compagna di trascorrere qualche ora di pace da sola a casa. Visto che la maggioranza dei miei amici sono queer, solitamente mi ritrovo ad incontrarli per un caffè in due visto che è più comodo per tutti. Lavoro duro per mantenermi molto attivo all’interno della mia comunità e sono grato per la costante mole di inviti ad eventi decisamente più ambiziosi ma, sii onesto per un attimo, Alex: il papà bisessuale con il suo quattrenne piagnucoloso al seguito è l’equivalente queer dell’amico vegano per cui devi organizzarti in largo anticipo quando viene invitato a cena con gli amici. Richiedo troppa preparazione, che potrebbe diventare più faticosa di quello che molti hanno voglia di affrontare per una chiacchierata di due ore.

Facciamo il punto per un attimo. Noi invitiamo i nostri amici alle feste e agli eventi sociali basandoci su alcuni semplici criteri: quanto è buona la loro compagnia, quanto si trovano bene tra di loro e quanto è facile soddisfare le loro esigenze. Al momento sento di essere in svantaggio perché la mia comunità non viene incontro al me stesso trentenne, visto che mi trovo proprio in mezzo a due specifiche fasi della vita per cui invece esistono “servizi” già ben stabiliti. I miei amici queer più giovani stanno crescendo in un ambiente meno ostile e spesso si incontrano in situazioni legate ai giochi e ai videogame, dove l’essere queer è una sorta di background intersezionale e non la ragione principale per cercare affinità elettive. I miei amici più maturi, che sono cresciuti in una società molto più opprimente durante gli anni ’80 e ’90, forse si appoggiano alla scena gay ancora di più dei più giovani, visto che rappresenta quell’angolo sicuro di cui hanno bisogno.

E anch’io ne ho bisogno. Tanto. Ma non posso portare lì i miei figli senza attirare l’attenzione di praticamente tutti i presenti. La gente non ama dover dosare le cose di cui possono parlare vicino a bambini che non sono i propri e quindi, piuttosto che disturbare, semplicemente non partecipo a questi eventi. Ma ovviamente più mi isolo, più mi sento insoddisfatto e infelice. Per farla breve: adesso tutti si aspettano che io mi “sistemi” nel senso più tradizionale del termine. E che non senta la necessità di spazi “queer” visto che, all fin fine, mi trovo in una relazione “eterosessuale” e qundi dovrei passare il mio tempo a sorseggiare merlot e guardare “Alla ricerca di Nemo”.

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