Matrimoni di serie A e di serie B

In questi giorni seguire il dibattito sul ddl Cirinnà è un po’ come andare sulle montagne russe: quando pensi di essere vicino alla meta e che potresti quasi cominciare a rilassarti, ti rendi conto che in realtà stai per cadere in un baratro. Poi il pericolo sembra scampato ma non sai cosa ti aspetta dopo la prossima salita.

Mentre scrivo queste righe l’esito della proposta di legge è ancora incerto, anche se siamo pronte al peggio. Nella migliore delle ipotesi la legge passerà senza stepchild e non ci sarà proprio niente da festeggiare.

Ogni tanto, quando sento parlare di matrimonio, della sacralità della famiglia tradizionale fondata sull’unione tra un uomo e una donna eccetera eccetera, mi torna in mente il giorno in cui mi sono sposata. Tra le emozioni che ricordo – un po’ offuscata dalla mancanza di sonno della notte prima – c’è un misto di felicità e paura, la sensazione inequivocabile di avere compiuto un passaggio importante. Ma non solo.

Ricordo anche molto bene che a un certo punto della giornata ho provato un senso di fastidio. Guardavo gli invitati e pensavo: “Ma come, bastano due firme in comune per rendere improvvisamente tutto ufficiale, degno dell’approvazione unanime di amici e parenti?” Io e il mio ex stavamo insieme da nove anni quando ci siamo sposati e all’inizio della nostra storia i miei non ne erano entusiasti. Quando siamo andati a convivere hanno storto il naso anche i suoceri. Per non parlare del fatto che eravamo una coppia decisamente non tradizionale: chi ci conosce lo sa molto bene.

Eppure è bastata una cerimonia di pochi minuti per cambiare tutto: lo stato civile, la percezione di noi da parte delle rispettive famiglie, il nostro ruolo all’interno della società.

E poi, lasciatemi dire un’altra cosa: anche dal punto di vista economico, sposarsi è una passeggiata.

Quando sento coppie che dicono “vorremmo sposarci, ma non abbiamo i soldi per farlo”, penso solo una cosa: no, non avete i soldi per la festa, l’abito da cerimonia, le bomboniere e tutto il resto, ma per sposarvi in comune bastano poche decine di euro, le pubblicazioni e in due settimane il gioco è fatto.

(Ironia della sorte, ho pensato la stessa cosa il giorno del divorzio: dopo tanti scontri e tanto dolore, dieci minuti davanti al giudice e via, si torna liberi… anche se in quel caso il costo è decisamente diverso).

Ecco, quando rifletto su come sia facile fare tutte queste cose in una coppia etero, l’ingiustizia mi sembra ancora più grande. Perché io le ho vissute, e anche se dopo il trauma della separazione avevo detto “mai più”, vorrei viverle ancora.

Solo che ora sto con una donna e per questo motivo non ho più diritto a nulla di tutto ciò.

Assurdo, vero? Eppure sono sempre io.

Ed è lo stesso il grado di amore, la felicità, le litigate, lo sbattere le porte, le risate a notte fonda, le arrabbiature che poi basta un sorriso dell’altra e ti passano in un attimo. È la stessa la paura che ti fa pensare “e succede qualcosa a me o a lei, come facciamo?” È lo stesso l’impegno nello starsi accanto, nel prendersi cura l’una dell’altra quando si sta male, nel raccontarsi le banalità quotidiane sul divano alla fine della giornata.

Credetemi, sapere com’è “dall’altra parte” fa arrabbiare il triplo.

Nessuno dovrebbe poter vietare a qualcun altro di trascorrere la propria vita con un’altra persona assumendosi tutte le responsabilità di questa scelta, che è soprattutto fatta di doveri, oltre che di diritti.

Poi ti chiedono “ma perché pestate i piedi, che tra gli etero non si vuole più sposare nessuno?”

Beh, perché il privilegio di questa scelta noi non ce l’abbiamo, anche se tante coppie e tante famiglie lo aspettano da anni.

 

Photo credit: Steve Jurvetson – Flickr: Fusillade of Fun, CC BY 2.0

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