Le rotte della vita: la storia di Francesca

Credo che in fondo, dentro di me, io lo abbia sempre saputo di essere “diversa”. Ma la diversità è una di quelle cose che, purtroppo, ci insegnano a temere, piuttosto che amare.

La prima cotta per una ragazza l’ho avuta a undici anni. Lei aveva tre anni in più di me. Ovviamente, però, al tempo non lo sapevo, che quella era una cotta. Eravamo in Inghilterra a imparare l’inglese in un college, per due settimane, durante l’estate. Telefonavo ai miei genitori ogni sera, per raccontare loro quello che stavo imparando e vivendo, e parlavo tanto, ingenuamente e senza malizia, di lei, al punto che mia madre, una sera, con disapprovazione nel tono di voce, mi ha chiesto “Oh, ma non sarai mica lesbica?!”. Ho riso, ho risposto che no, ovviamente, non lo ero. Nella mia innocente mente undicenne, era solo ammirazione, quella. Ammirazione per una ragazza più grande di me. Magari mi stava simpatica. Ma niente di più.

Crescendo, la mia adolescenza è stata piuttosto regolare. Ho evitato qualsiasi deviazione, per conformarmi il più possibile ai binari disegnati dai miei genitori per me. Studentessa modello. Praticavo sport. Suonavo il pianoforte, anche se nel profondo avrei tanto voluto suonare la batteria, ma mia mamma non voleva perché “è una cosa da maschi”.

Ho conosciuto quello che sarebbe poi diventato il mio primo, vero, ragazzo, a soli tredici anni. Ci siamo messi insieme a sedici anni, e la nostra relazione è finita tre anni dopo, quando ne avevamo quasi diciannove. L’ho amato dal profondo del cuore. L’ho amato come, forse, solo il primo amore si può amare. Con l’intensità delle prime volte e l’incoscienza che deriva dal non sapere quando può fare male quando l’idillio finisce. L’ho scoperto, poi, quel dolore, quando mi ha confessato di non essere più innamorato di me. È stata una fase complicata e dolorosa della mia vita, che però in qualche modo, con il tempo, ci ha portati ad essere ancora più legati di prima. Oggi, a quattro più di quattro anni da quando ci siamo lasciati e più di dieci da quando ci siamo conosciuti, è uno degli amici più stretti che ho, e a legarci è l’affetto quasi fraterno di chi ha condiviso tutto, ma veramente tutto. Tanto che, quando ho capito di essere bisessuale, lui è stato una delle prime persone a cui l’ho raccontato.

Di essere attratta anche dalle donne l’ho capito, in maniera razionale, intorno ai vent’anni. L’ho inizialmente interpretata come curiosità. Sono sempre stata aperta mentalmente e soprattutto estremamente incline a ricercare nuove esperienze. Forse era solo un nuovo stimolo. Forse sarebbe passato presto. In più, in quel momento, stavo con un ragazzo. Vivevo a Bologna, dove mi ero trasferita per frequentare l’università. Studiavamo nello stesso corso, ed eravamo felici. Era una relazione seria. Di quelle relazioni che la gente guarda pensando “loro si sposeranno”. E forse, in fondo, lo pensavamo anche noi. Ed è stata questa prematura certezza a spegnere lentamente il sentimento. Ci siamo lasciati poco più di un anno fa. Quello è stato il momento in cui ho pensato che, forse, una volta passata la burrasca della fine della relazione, avrei potuto finalmente cogliere l’occasione per capire meglio quei segnali che la mia mente e il mio corpo mi stavano inviando da un po’. Quella curiosità non era solo curiosità. Era qualcosa di profondo, a cui fino a quel momento avevo negato spazio e attenzione.

E lì è arrivata lei. Lei che con un caffè in centro e una passeggiata sotto la pioggia ha stravolto la mia vita e qualsiasi convinzione solida avessi su me stessa e sulla mia identità fino a quel momento. Ci siamo baciate, ed è stato come se fosse il primo bacio. Improvvisamente, avevo di nuovo quattordici anni e non avevo idea di cosa fare, cosa dire, dove mettere le mani. Tremavo e non sapevo nemmeno perché. O forse il perché lo sapevo, ma non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa. Quella non era curiosità. La curiosità non ti fa tremare.
È iniziato tutto come un gioco, sia per me che per lei. Nessuna delle due era mai stata con una donna. Era più un esperimento, che altro. Eravamo terrorizzate entrambe, dalla situazione e dall’idea che, davvero, potesse piacerci.
Lei vive a Ferrara. Ci vedevamo poco, ma il tempo era sempre di qualità. Parlavamo tantissimo. E alla fine è successo, abbiamo fatto l’amore. E dico l’amore perché, per quanto ci ripetessimo che era solo sesso e che, tanto, stavamo solo giocando, con lei non è mai stato solo sesso. Nemmeno la prima volta.

È iniziata così, la relazione più incasinata e travolgente della mia vita. Per gioco. Un gioco che presto ci è sfuggito di mano e si è trasformato in qualcosa di molto più grande di noi. Qualcosa che ci ha costrette a fare i conti con una realtà scomoda: la bisessualità.

Lei viveva in una realtà più complicata della mia. Una realtà che rendeva ancora più difficile, per lei, accettare quello che aveva scoperto di essere. Ogni tanto scappava, si allontanava, poi ritornava, poi scappava di nuovo, poi si ripresentava sotto casa mia in piena notte. E ogni giorno era una montagna russa. Era tanto magico e intenso, quanto complicato e doloroso.
Ma lei era diventata una parte della mia vita talmente enorme da non riuscire più a tenerla nascosta. Volevo che non fosse un’ombra. Volevo che facesse parte del mio mondo, che i nostri incontri non fossero clandestini. Allora un po’ alla volta, armandomi di coraggio – tanto coraggio – ho cominciato a parlarne a qualche amico.

Il 31 Ottobre 2015, la notte di Halloween, ho detto ai miei genitori di essere bisessuale. Forse la coincidenza della ricorrenza è stata particolarmente ironica, ma i miei genitori non ci hanno trovato proprio nulla, di ironico. È stato un coming out difficile, doloroso e colmo di lacrime. Lacrime di mio padre che, prima di quel momento, avevo visto piangere solamente una volta nella vita: al funerale di mia nonna. Mia madre ha attraversato, in sole due ore, tutte le fasi che sia possibile immaginare in queste circostanze: dal “Mi stai facendo uno scherzo”, al “Lo fai solamente perché ti diverte fare qualcosa di trasgressivo e ti piace andare contro corrente”, al “Dovresti vergognarti di quello che sei, e ti conviene non parlarne con nessuno perché nessuno capirà o accetterà questa cosa, nemmeno quelli che consideri amici”, fino al delirio totale della frase “Secondo me stai solamente confondendo l’amicizia con l’attrazione fisica”.

A quella notte sono seguiti quattro lunghi mesi in cui le conversazioni con loro erano rare, tese, imbarazzanti. La maggior parte delle volte si evitava l’argomento. Quando non se ne poteva fare a meno, si precipitava nuovamente in litigi, incomprensioni e lacrime. Stavo quasi sempre a Bologna e tornavo a casa il meno possibile, per non dover affrontare il peso di quella situazione. E poi, un po’ alla volta, passo dopo passo, conversazione dopo conversazione, abbiamo cominciato a riavvicinarci. Nonostante ora siamo legati da un bel rapporto, l’argomento è ancora piuttosto tabù in casa. E quando viene esplicitato, è sotto forma di pressione psicologica, perché si aspettano che io prenda una decisione. Il loro atteggiamenti è riassumibile con: finché c’è il 50% di probabilità che mia figlia decida di passare la vita con un uomo, non mi prendo il disturbo di attraversare il faticoso processo di accettazione del fatto che c’è un 50% di probabilità che lei possa volerla trascorrere con una donna.
Ma tutto sommato, sanno di me. E questo mi basta a sentirmi più libera di essere la persona che sono.

La ragazza che mi ha stravolto la vita, ora non è più nella mia vita. Troppi eventi e troppe salite e discese sulle montagne russe ci hanno portate ad allontanarci e a capire che, forse, avevamo bisogno di guardarci dentro e capire, da sole, chi eravamo e cosa volevamo. Io sono partita per l’Erasmus. Lei è rimasta in Italia. Ma non passa giorno che non pensi a lei. Non perché io sia ancora innamorata, ma perché il bene che le voglio non scomparirà mai. È quel bene che si vuole alle persone che ci hanno lasciato un segno dentro e che hanno irrevocabilmente cambiato la rotta della nostra vita.

Francesca

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