Ritrovare la voce nel bel mezzo del silenzio – La storia di E.

La mia storia è appena all’inizio, una pagina bianca ancora da scrivere. Ma quanto mi è costato impugnare la penna, fissarla sul foglio e decidermi, una volta per tutte, a mettere nero su bianco le prime parole. La mia storia è una strada che si snoda davanti a me, sconosciuta. Eppure ho scelto di iniziare a percorrerla, mettendo fine ad anni di silenzio, di vergogna, di disprezzo nei confronti di me stessa.

Paradossalmente, la mia storia è diventata voce solo quando dentro di me ha iniziato a regnare, sovrano, un silenzio assordante. Il silenzio, il vuoto che ha lasciato in me la morte di mio padre, scomparso alcuni mesi fa dopo una lunga malattia. È stato solo quando ho trovato il coraggio di guardarlo in faccia, quel vuoto, che mi sono resa conto di aver perso molto di più di un genitore: ho perso una parte di me stessa, quella parte della mia identità in cui – per 14 anni, dall’inizio della sua malattia – mi rifugiavo ogni volta che avevo paura di pensare alla mia vita. Pensare a lui, preoccuparmi per lui, prendermi cura di lui, soffrire per lui…per non pensare mai a me. Non dovevo, non potevo. E quando tutto il suo dolore è finito e, finalmente, mio padre ha lasciato la prigione di un corpo che non aveva più nulla di suo, mi sono ritrovata sola, in un oceano di silenzio, a chiedermi chi fossi.

Ed è venuto tutto a galla: un grumo di emozioni represse, allontanate, ripudiate. Sono riaffiorati sentimenti sepolti da anni di lotte contro me stessa per mettere a tacere il senso di colpa e di inadeguatezza che mi assedia da quando, a 17 anni, mi sono innamorata di una ragazza. M. La mia amica M. Un sentimento sincero, nato per gioco ma diventato un fiume che mi scavava dentro. Due corpi che si cercavano, si scoprivano, senza giudizio, senza aspettative, senza la paura di non sentirsi all’altezza, come spesso accadeva quando mi trovavo, nuda, di fronte a un ragazzo. Compagne di scuola, diametralmente opposte per aspetto fisico, carattere e interessi, le nostre anime si toccavano, si respingevano, in una vorticosa giostra di gelosie, segreti, infinita tenerezza, timore costante di essere scoperte.

Una storia durata quasi un anno e mezzo, interrotta bruscamente da me, dopo mesi di tormenti interiori. L’idea che qualcuno potesse scoprirci insieme – i genitori, le amiche, il resto del mondo – non mi lasciava più vivere. La vergogna mi soffocava. Volevo disperatamente essere “normale”. Le attenzioni di un ragazzo – quelle che per me, da adolescente bruttina, sovrappeso e invisibile erano diventate un metro di paragone essenziale per “misurare” non solo il mio aspetto esteriore, ma anche il mio valore individuale – mi mancavano ogni giorno di più. Allo stesso tempo, sentivo che quello che provavo per M. non era più un gioco, che perdevo il controllo. Nella mia testa si annidavano pensieri tanto assurdi quanto pericolosi: avevo persino iniziato a credere che, se mio padre si era ammalato, a pochi mesi dall’inizio di quell’insensata storia d’amore, la colpa era di quella felicità inaccettabile, imperdonabile. Una felicità che andava cancellata, il più rapidamente possibile, dalla mia vita. Una felicità che andava dimenticata. Fingere, continuare a uscire con lo stesso gruppo di amiche, come se nulla fosse mai successo tra noi, sorridere forzatamente, ignorare il linguaggio muto del suo sguardo ogni volta che incrociava il mio. Quel periodo fu una vera tortura per me.

Eppure, nonostante quella farsa, M. non uscì dalla mia vita. Non mi sbugiardò mai, con nessuno. Scelse di restarmi accanto, nonostante l’avessi respinta e allontanata in fretta e furia, presa dalla frenesia di lasciarmi tutto quanto alle spalle e ricominciare, ovviamente con un ragazzo. Lentamente, io e M. creammo un nuovo equilibrio, ognuna prese la propria strada. Pian piano, rimettemmo insieme le macerie e ricostruimmo il legame di amicizia da cui, un tempo, era nato il nostro amore adolescenziale. Per anni, nel passare da una relazione all’altra – sempre e solo con dei ragazzi, due dei quali sono stati le uniche persone che ho amato, a parte M., prima di incontrare il mio attuale marito – ho pensato che quel sentimento fosse stato una parentesi, una semplice deviazione da un percorso altrimenti rettilineo, un gioco tra ragazzine che esploravano la propria sessualità. Quante bugie mi sono raccontata! Quante volte – casualmente, mi ripetevo – mi ritrovavo a stringere amicizie con ragazze omossessuali o bisessuali, andavo a feste per sole donne, ero attirata da film, libri e serie TV in cui comparivano personaggi con orientamenti non monosessuali. Mi sentivo fiera di questa mia “apertura mentale” e, al contempo, mi crogiolavo in quella che ritenevo essere “la parte giusta da cui stare”. L’eterosessualità.

Per molto tempo, la mia vita sembrava aver preso la piega giusta: avevo finalmente incontrato un uomo straordinario, una persona intelligente, solida, autentica, incredibilmente gentile. Una persona al cui fianco mi sono sentita, fin dal primo momento, al sicuro. D. è entrato nella mia vita in punta di piedi, ma è stato nel momento in cui ho avuto davvero bisogno di avere qualcuno accanto – e lui c’è stato, leggendomi dentro molto meglio di tante altre persone e capendo quanto stessi soffrendo in una città in cui mi sentivo completamente sola, incapace di adattarmi a una realtà antitetica rispetto al mio modo di essere – che ho iniziato a provare per lui un sentimento che andava ben oltre l’amicizia. Un amore adulto, consapevole, sano. Mi sono innamorata di D. lentamente, giorno dopo giorno, certa che quel sentimento che andava sbocciando dentro di me fosse il primo passo verso qualcosa di molto diverso da ciò che avevo provato per altri uomini in passato. Eravamo fisicamente lontani, ma questo genere di ostacoli non ci spaventavano, anzi. L’attesa di ogni weekend insieme era la spinta che ci aiutava ad affrontare qualsiasi cosa accadesse nei giorni in cui eravamo distanti.

Poi, inaspettatamente, è arrivata un’occasione di lavoro che mi ha permesso di trasferirmi nella sua stessa città. Tre anni di convivenza sono trascorsi in un baleno e la voglia di costruire un futuro insieme è diventata qualcosa di molto più concreto di una semplice fantasia. La proposta di matrimonio è arrivata una sera di aprile del 2019, in una piovosa, incredibilmente bella, Matera. Un viaggio che mi resterà sempre nel cuore. Insomma, tutto sembrava perfetto, anzi lo era, ne ero certa. Fino a quando, in tutta questa mia sicurezza, hanno iniziato ad aprirsi delle crepe. Già mesi prima della proposta di matrimonio, apparentemente senza una ragione in particolare (quantomeno in superficie), io e M., ormai adulte, abbiamo iniziato a frequentarci più assiduamente e sempre più spesso da sole, lontane dal solito gruppetto di amiche storiche.

Uscita dopo uscita, la voglia di rivederla, di passare del tempo con lei, di sentire la sua risata, di abbracciarla, aumentava. Il senso di libertà nel sentirmi vista e riconosciuta per quello che sono, senza freni, senza dover selezionare i contenuti di cui poter o non poter parlare, era impagabile. Uno stato di ebbrezza che avrei voluto non finisse mai. Quei momenti con lei erano delle “bolle” in cui potevo essere me stessa al 100% – cosa che raramente, persino con D., riuscivo a fare del tutto – ma anche delle parentesi di leggerezza e di spensieratezza in una vita in cui le preoccupazioni, soprattutto in famiglia, non sparivano mai, anzi. Aumentavano di volta in volta. Lentamente, ho iniziato a rendermi conto che c’era qualcosa di diverso in quelle nostre serate a due: il modo in cui la guardavo, il modo in cui le parlavo, il modo in cui le sfioravo anche solo semplicemente un braccio, era diverso. Mi trasmetteva qualcosa di diverso. Un brivido. Prima impercettibile, poi sempre più forte. Tanto da spaventarmi. Le ho scritto una lettera, sperando che si rivelasse una sorta di “catarsi” emotiva e facesse scomparire quel brivido così scomodo, inappropriato, soprattutto per una persona che si sarebbe sposata di lì a pochi mesi. Per la prima volta, ho riaperto il cassetto di quella che era stata la nostra storia adolescenziale e – aiutata dalle parole – l’ho svuotato tutto: le ho scritto della paura, della vergogna, ma anche dell’autenticità del sentimento che avevo provato per lei, per quanto giovani fossimo entrambe. Le ho chiesto scusa per la frettolosa brutalità con cui avevo deciso di mettere fine a tutto. Le ho confessato della presenza di quello “strano” brivido ogni volta che restavamo sole, cercando di minimizzarlo come pura attrazione fisica, evidentemente ancora presente. Avevo dato al tutto un tutto ironico, banalizzando, cercando di non dare nessun peso alla cosa, ribadendo quanto fosse preziosa la nostra amicizia, sopravvissuta – nonostante tutto – negli anni. Non è andata come speravo: dopo la lettera, il brivido non è affatto sparito, anzi. Anche M. sembrava guardarmi con occhi diversi. Parlare del passato, ridere dei momenti vissuti insieme, era diventato naturale, spontaneo, piacevole. La complicità tra di noi era evidente.

Puntualmente, ogni volta che rientravo a casa dopo aver trascorso la serata con lei, il senso di colpa tornava a bussarmi alla porta. Per quanto continuassi a volere un futuro con D., quello che provavo per M. stava cambiando e io mi sentivo in balia delle onde, incapace di afferrare il timone della mia vita e scegliere che direzione darle. Poi ho deciso: quello che avevo costruito con D. era qualcosa di troppo prezioso e raro per poter essere messo in discussione da un groviglio di emozioni confuse nei confronti di una persona che, sentimentalmente, apparteneva ormai al passato, peraltro impegnata a sua volta in una relazione che durava da quasi dieci anni. Il giorno del matrimonio, quando – al momento del brindisi con le amiche di sempre – i nostri sguardi si sono incrociati per un istante, ho avuto la sensazione che tutto fosse “tornato al suo posto”. M. era solo una cara amica ed era lì, accanto a me, il giorno del mio matrimonio, per festeggiarmi.

Quell’ordine apparente è durato molto poco: due giorni dopo la cerimonia, la condizione di salute di mio padre si è aggravata improvvisamente e il mio mondo ho iniziato a franare. Mi sembrava che tutto perdesse significato, matrimonio compreso, e finivo per allontanare D., certa che non potesse capire il mio dolore. La sua amarezza per il fatto di non poterci godere quel momento come avremmo voluto e sperato era, ai miei occhi, una forma di egoismo. Quasi una mancanza di rispetto nei confronti della sofferenza di mio padre e della mia famiglia. Rifugiarmi nell’abbraccio di M., in quei giorni, è stato un impulso viscerale. Mi sono aggrappata a lei come a un’ancora di salvezza: lei era lì, sempre pronta ad asciugarmi le lacrime, ad ascoltarmi in silenzio, a lasciarmi sfogare, a inventarsene di tutti i colori per farmi sorridere. C’era un sentimento decisamente più forte dell’amicizia nel modo in cui mi lasciavo abbracciare da lei. Nel modo in cui mi abbracciava. Ho impiegato quasi due anni – e mesi di terapia – per riconoscere e accettare la profondità di quel sentimento e piangerne la fine, quando è svanito. Anche se tra me e M. non è mai successo niente a livello fisico in età adulta – non perché non si fosse presentata l’occasione, quanto per una scelta condivisa da entrambe – temevo che quello che avevo innegabilmente provato per lei potesse in qualche modo sminuire o invalidare l’amore nei confronti di D.

Ho avuto bisogno dell’aiuto del mio terapeuta per comprendere che, quando si tratta di amore, non c’è una bilancia con cui “pesare” ciò che si prova per una persona o per l’altra. Non avevo scelto di tornare ad amare M.: il sentimento si era riacceso spontaneamente dentro di me e, se anche mi fossi imposta di non vederla più, non avrei potuto fermarlo. Restare fedele a D., nonostante i tentennamenti, è stata, invece, una vera e propria scelta. Una scelta sicuramente non facile ma, adesso posso affermarlo con certezza, guidata da un amore vero. Un amore che ha attraversato l’inferno della malattia di mio padre e del lutto, uscendone più forte.

Anche se, da quando si è trasferita all’estero, M. e io non ci vediamo praticamente più, la sua presenza nella mia vita continua a essere una costante. Inizialmente, il distacco è stato incredibilmente doloroso: aldilà dell’impossibilità di rivederci per svariati mesi a causa della pandemia, non riuscivo a “lasciarla andare” perché continuavo a negare di aver provato qualcosa di veramente forte nei suoi confronti. Solo quando ho legittimato e accettato i miei sentimenti nei suoi confronti, ho potuto “piangere la perdita” e andare avanti. Ricostruire un rapporto a distanza, dopo un simile tsunami emotivo, è sicuramente una sfida, ma non la temo. So che per M. ne vale la pena.
Quanto a me, per quanto sia consapevole che la strada verso la piena accettazione di me stessa è ancora lunga e tortuosa e che sono ancora tante le prove da sostenere, posso finalmente iniziare a scrivere le prime parole della mia storia:

Mi chiamo E. Ho trentadue anni, sono felicemente sposata con D. e…sono bisessuale.

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