Dichiararsi bi sul lavoro: Margherita e Mel

Continuiamo la nostra mini serie di interviste a tema “coming out bi e lavoro”. Dopo l’esperienza di Francesca e quella di Andrea e Alex, oggi leggiamo le storie di Margherita e Mel:

Margherita

Qual è il tuo lavoro attuale? 

Al momento sono stagista in un’azienda e mi occupo di analisi social.

Hai avuto esperienze precedenti?

Ho fatto vari lavori prima di questo, tra cui la commessa, l’animatrice e uno stage di data entry in un’azienda diversa da quella in cui mi trovo ora.

Sei mai stat* out al lavoro? Se sì, puoi raccontare la tua esperienza, difficoltà, vantaggi e svantaggi che hai notato nella tua vita professionale quotidiana e nell’approccio dei tuoi colleghi?

Sono stata out in alcuni luoghi di lavoro e non out in altri. In generale è sempre dipeso da che grado di conversazioni personali ci fossero tra me e i colleghi, o tra me e i miei superiori. Mi è capitato di non essere assolutamente out con nessuno, ma perché non c’era confidenza di nessun tipo e non si parlava della vita privata – ma ricordo che, in questo caso, venivo automaticamente scambiata per eterosessuale e mi risultava ancora più difficile correggere l’assunzione degli altri, perché nessuno capiva perché fosse importante insistere sul fatto che no, non sono eterosessuale.

Mi è capitato di essere out coi miei colleghi e non coi miei superiori, in parte perché con i colleghi c’era un rapporto di amicizia e coi superiori no e non ho mai pensato che fosse necessario parlarne; in casi come questo, ho avuto delle belle esperienze – ma sostanzialmente è perché lavoravo con delle belle persone.

Mi è capitato anche di passare mesi in un ambiente lavorativo pesante in cui, non appena sono entrata, mi sono sentita poco al sicuro. Il mio fastidio era associato soprattutto a un’atmosfera maschilista: non avevo paura di fare coming out all’inizio – anche perché tante altre persone queer mi avevano parlato bene della loro esperienza in quell’azienda – ma sono finita in un team con persone che non mi stavano tanto a genio; non soltanto per l’omofobia, ma sicuramente c’era anche quella: battutine, scherzi, cose generiche. Niente di tutto questo all’inizio era rivolto a me: agli occhi di molti io non sembro queer, all’epoca ero single, e quindi nessuno nel team si è posto il dubbio o il problema che potessi esserlo e sono andati avanti con le battute: io rispondevo ma in generale; mi avevano tolto la voglia di parlare di me, e in ogni caso non sarei stata loro amica.
Più avanti ho scoperto che prima che io e l’altra stagista fossimo arrivate avevano guardato i nostri profili social e si erano “spartiti” le nuove arrivate, decidendo chi ci avrebbe provato con chi. Io non ero assolutamente interessata, e in più ero abbastanza infastidita dall’atteggiamento, quindi sono stata abbastanza aggressiva a riguardo. Questo mio fastidio unito al fatto che avevo un piccolo arcobaleno sul telefono li ha portati a supporre che fossi lesbica – perché evidentemente era l’unica valida ragione per non cedere alle avances – e a cercare di mettermi al muro per farmelo ammettere. Io mi ero impuntata sul fatto che fosse più importante rifiutare delle attenzioni non volute per principio, perché non serve una “valida ragione”, e non avevo né ammesso né negato niente. Per un po’ mi hanno lasciata stare.
Nel team c’erano anche delle ragazze con le quali avevo legato molto e alle quali dopo un po’ feci coming out, e non ci fu nessun problema – onore al merito, non ci furono neanche domande curiose, o indiscrete, o morbose. Mi sentivo più tranquilla a parlare di me al lavoro, e questo cominciò a far insospettire di nuovo gli altri che magari sentivano le nostre conversazioni. Una sera invitai queste amiche in un locale queer per una serata, e il resto del team si autoinvitò e non potei protestare né farci niente, ci seguirono con un certo intento di “smascherarmi”. Io mi ero stufata del teatrino; quando più tardi, nel locale, uno di loro mi chiese se fossi lesbica, risposi che ero bisessuale. Lui mi chiese subito se avessi mai fatto una cosa a tre, e quale delle nostre colleghe – le due mie amiche – mi piacesse di più. Non so che fantasie stesse esplorando ma credo possiamo immaginarle. Questo era un collega che dovevo vedere tutti i giorni, che aveva già avuto un atteggiamento viscido in passato e che di tutte le reazioni che poteva avere al mio coming out ha deciso di avere la più feticizzante e sessualizzante possibile. Dopo un po’ l’atmosfera è diventata insostenibile, io avevo già altre ragioni per andarmene dall’azienda e quello è stato il colpo di grazia.

Ci sono colleghi LG out nel tuo posto di lavoro? Se sì, ritieni che ci siano delle differenze nell’approccio verso una persona LG out e una BI? Se non sei out, puoi spiegarci perché? 

Quello attuale è l’unico posto di lavoro in cui ho lavorato nel quale c’è un’altra persona out. Al momento non sono out come persona bisessuale ma come “donna che ha una relazione con una donna”. Non ho parlato di definizioni e identificazioni, quindi non posso effettivamente fare un paragone tra come vengo trattata io e come viene trattata l’altra persona out. Posso dire che veniamo trattati nello stesso modo e che al momento mi trovo in una situazione in cui sento non ci sarebbe nessun problema a fare coming out come persona bisessuale ma semplicemente non mi si è ancora presentata l’occasione di inserirlo in una conversazione.

Non lavori ma studi all’università? Sei out con i tuoi colleghi? Se no, perché?

Non credo questa domanda conti particolarmente visto che lavoro, ma quando ero all’università ero out come persona bisessuale con tutti quelli che mi conoscevano, anche con alcuni professori giovani che avevano un rapporto personale con gli studenti. Credo che lo scarto di differenza tra essere out all’università ed esserlo al lavoro è che in università è facile evitare le persone che ti possono rendere la vita difficile dopo un coming out; in un ufficio no. Potenzialmente sei costretto a lavorare a stretto contatto con persone che sai che pensano a te in un modo viscido, morboso, in certi casi anche violento.


Mel

Non lavori, ma studi all’università? Sei out con i tuoi collegi? Se no, perché?

Il mio percorso di consapevolezza di essere Bi è molto recente, quindi in passato (sia durante la scuola, che durante la triennale) non ho mai fatto coming out. L’ho fatto, appunto, recentemente con alcune mie amiche/colleghe di Università. In generale, le reazioni sono state normali, senza stupore o meraviglia, e mi è anche stato dato un bel supporto e grande comprensione e accoglienza.
Ci sono state, però, 3 situazioni “particolari”:
una mia collega e amica mi disse “credo che alla nostra età sia normale voler sperimentare”, al quale io ho ribattuto con “so che non devo sperimentare per sapere se mi piace o no”;
un’altra collega (e amica) mi disse che lo aveva pensato/immaginato, perché non ho mai parlato di relazioni/cotte ecc;
ho fatto anche un coming out non diretto (stavo parlando di Bproud e c’è stato un momento di esitazione in cui non sapevo se dire chiaramente di essere Bi) con una mia docente e, anche se lei non ha detto nulla in merito, ho percepito un po’ di stupore, da parte sua. Tempo dopo, ho deciso di fare un vero e proprio coming out con lei, dicendoglielo chiaramente, e la sua reazione è stata molto bella e dolce, ma una cosa che ha scritto mi ha fatto un po’ storcere il naso e un po’ sorridere, ovvero “avevo pensato avessi una tua originalità sessuale, così come tutti noi l’abbiamo”. Io non l’ho presa male e anzi, tutt’ora mi fa sorridere perché lo reputo molto buffo da dire, ma allo stesso tempo mi rendo conto che per un certo verso è anche sbagliato.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.