Coming out – le nostre storie

Il coming out è un’esperienza personale e universale.
È universale perché è un tema che tutte le persone appartenenti alla comunità lgbt+ affrontano prima o poi, che decidano di farlo o meno.
È personale perché ogni coming out, effettuato o mancato, è una storia unica che merita di essere ascoltata.

Il coming out non è mai fine a se stesso, è un atto politico e rivoluzionario. Gli attuali diritti lgbt+ sono proprio conseguenza dei coming out e delle rivendicazioni di chi ha lottato prima di noi.

Per queste ragioni, in occasione del coming out day, abbiamo deciso di lasciare spazio ad alcune persone del Bteam perché raccontassero la propria esperienza.

Come una cascata – la storia di Chiara

Quando penso al coming out, penso inevitabilmente a quello con la mia famiglia.
Quello con i miei amici è stato semplice, le parole sono uscite dalla mia bocca senza esitazione, con la leggerezza di un battito d’ali.
Il coming out con i miei genitori, invece, lo ricordo come più l’acqua che scende giù da una cascata, con le parole che sono cadute una sull’altra, impetuose e inarrestabili.
Lo ricordo come se fosse ieri, anche se sono passati ormai quasi tre anni. Erano mesi che uscivo (per la prima volta) con un’altra ragazza e sentivo aumentare giorno per giorno il peso di ciò che stavo nascondendo, non mi sentivo tranquilla a farmi vedere in giro con lei, non riuscivo a essere serena e felice per ciò che mi stava accadendo, per le parti di me che stavo piano piano scoprendo.
Avevo paura di fare coming out con i miei.
Non temevo la loro reazione, loro mi hanno sempre fatta sentire amata per ciò che sono e sapevo che non avrebbero reagito in maniera aggressiva.
Temevo piuttosto di scaricare il peso che sentivo addosso a me su di loro. Non volevo dare loro preoccupazioni inutili, non volevo iniziassero a chiedersi come si sarebbero potute comportare le persone con me.
Non mentirò su questo, mio padre mi ha detto che preferisce quando esco con i ragazzi e subito ho sentito una fitta di dolore dentro.
Dietro quelle parole, però, ho visto il percorso di un uomo che è partito da una mentalità chiusa e negli anni non ha fatto che migliorare per amore della sua famiglia. Probabilmente, se avesse saputo della mia bisessualità diversi anni prima, non l’avrebbe presa affatto bene.

Ho fatto coming out con i miei genitori nel cuore della notte, tra le lacrime.
Sono tornata a casa, sono entrata nella loro stanza e sono scoppiata a piangere.
Piangevo perché non riuscivo più a tenere tutto dentro.
Piangevo perché, contemporaneamente, non volevo fare uscire nessuna di quelle parole.
Ma poi mi hanno abbracciata.
Mi hanno detto “se a qualcuno non andrà bene, lo affronteremo insieme”.
Ho fatto coming out con i miei genitori ed è stato uno dei più bei regali che potessi farmi, perché era la notte del mio compleanno.

Un processo continuo – le parole di Valeria

Come spesso succede a tante persone Bi+, una volta iniziato a fare coming out non ho più smesso: si tratta di un processo continuo e pieno di emozioni contrastanti, dall’entusiasmo iniziale alla frustrazione per non essere sempre visibile come desidero, passando per un certo divertimento quando mi rendo conto di sovvertire i pregiudizi di chi mi ascolta.
Molti coming out sono filati abbastanza lisci, ma alcuni purtroppo mi hanno lasciato la frustrazione e il dispiacere di sentire la mia identità invalidata e sminuita. Sono proprio queste ultime esperienze che mi hanno convinto sempre più che mostrarsi e rendere esplicito il proprio orientamento sessuale è una forma importante di attivismo, oltre che di realizzazione personale: è un modo di fare sapere a tuttu quellu che non possono vivere pubblicamente il loro orientamento sessuale che ci sono altru come loro, che siamo qui per darci una mano; ed è anche un modo per non darla vinta a chi ritiene che la bisessualità non esista!

Camminare a testa alta – i tanti coming out di Federica

I miei primi coming out risalgono al periodo dell’adolescenza, anche se tutt’ora non sono per nulla terminati. Una persona bisessuale non smette mai in realtà perché si dà sempre per scontato un orientamento monosessuale.
Il mio primo coming out fu a 16 anni circa, con mia madre. Volevo dirle che, oltre i ragazzi, mi piacevano anche le ragazze, in particolare la mia insegnante di danza dell’epoca. La sua risposta mi lasciò un po’ spiazzata: “potrebbe essere una fase. L’ho avuta anch’io con mia cugina.”
Nello stesso periodo feci coming out con una delle mie migliori amiche, e purtroppo andò malissimo. In un primo momento mi chiese solo se io mi fossi mai innamorata di lei, cosa che negai con decisione, cercando di rassicurarla sul fatto che la consideravo un’amica. Lì per lì sembrò che lei l’avesse presa bene, ma poi, purtroppo, iniziò la fase del ghosting: non si faceva sentire, inventava continuamente scuse per non vedermi, finché un pomeriggio scoprii che aveva invitato a casa sua altre persone della mia classe, ma non me. Non riuscii ad affrontarla, mi lasciò una bruttissima sensazione dentro, di rifiuto, di sporco, di non essere normale. Non mi contattò più, sparì completamente dalla mia vita.
Una delle peggiori reazioni al coming out la ebbi con un ragazzo con cui avevo iniziato una relazione: omofobo fino al midollo, oltre a non credere nella bisessualità, mi dava della lesbica schifosa e mi picchiò. Fu un’esperienza abbastanza terribile.
Fortunatamente altri coming out, con persone molto importanti nella mia vita, sono andati bene.
In ultimo coi miei genitori la scorsa estate a 41 anni suonati: ho detto loro della mia bisessualità certa, senza più ipotesi di fasi o incertezza. Mi hanno abbracciata, mi hanno detto di essere fieri di avere una figlia come me e che devo camminare a testa alta. Credo sia stato uno dei momenti più importanti della mia vita. Non dimenticherò mai quella sensazione di pace e accettazione finale.

 

Come un film che ha un inizio, ma non una fine – la testimonianza di Francesca

Ho fatto tanti coming out in questi 13 anni. Quasi nessuno è andato come mi aspettavo, anche se devo dire che nella maggior parte dei casi dopo averlo fatto mi sono sentita più libera, più leggera. Spesso ho riso, a volte mi sono persino detta “tutto qui?” dopo che magari avevo passato giorni a chiedermi come avrebbe reagito la persona che mi trovavo davanti.

Non sempre è andata bene; ci sono coming out che fai una volta, credi di esserti liberata del pensiero e poi invece capisci, a mesi di distanza, che per quanto tu possa essere stata diretta il messaggio non è stato recepito. In realtà, spesso in questi casi non era il messaggio in sé a non essere chiaro: è solo che ci sono persone che non sono pronte o disposte ad ascoltarlo.

E allora si può scegliere di continuare a tirare fuori l’argomento e vedere se qualcosa, nel frattempo, è cambiato. Oppure si può prendere atto che il coming out è come un dialogo: funziona solo se sono entrambe le parti a portarlo avanti. Per come la vedo io, è un atto importante ma mai dovuto a tutti i costi. Se la persona che “non vuol sentire” tiene davvero a noi, prima o poi troverà il coraggio di ascoltarci. Altrimenti si può comunque andare avanti a testa alta, consapevoli che il coming out più importante, quello che davvero ti toglie un grosso macigno dall’anima, è quello che si fa con sé stessi.

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