Closet vs privacy – seconda parte

Spero che prima o poi si arrivi a fare i conti con una domanda che ci poniamo in varie forme da tanto tanto tempo: vivere apertamente la propria identità renderebbe il mondo migliore dal punto di vista della tolleranza? (A questo punto mi è esploso il monitor).

Secondo alcuni la risposta è sì; prima di tutto bisognerebbe capire però cosa significhi esprimere la propria identità e qui con una ottantina di euro un buon psicoterapeuta è in grado di aiutarci… Nel caso specifico però, parliamo dell’orientamento sessuale.

La comunicazione non verbale ad esempio può essere un veicolo del proprio CO. Però ha a che fare con le esternazioni, l’abbigliamento, il look in genere, con il paraverbale, e con quella bellissima (ancorché illusoria) piaga culturale che è la distinzione tra mascolinità e femminilità. Siamo mal messi… Nel senso che se una bellissima ragazza, si rasa a zero, si veste sempre con abiti “tradizionalmente” maschili e guida un bilico allora, anche nel 2017, sicuramente è lesbica. Per contro non possono esistere gay senza piume di struzzo o uomini bisessuali che non abbiano ogni tanto qualche uscita alla Michel Serrault.

Ovviamente il non verbale varia da persona a persona ed inoltre può essere represso o volontariamente “contro-connotato”. Però dovremmo ricordare che tutto ciò che non uccide ci può essere utile. Perché allora non usare qualche cliché allo scopo di veicolare un messaggio?

Anche la dichiarazione d’intenti, di per sé conscia, è ovviamente un veicolo: quello privilegiato oserei dire. Nel momento in cui esterno il mio orientamento sessuale con delle motivazioni interne e uno scopo preciso faccio vero e proprio CO. Nobile, maturo, PROUD.

Peccato che spesso quando lo si fa ci si aspetta sì che la cosa venga accettata nel modo migliore, ma si spera anche di suscitare un momento di vicinanza, comunicazione e dibattito che spesso manca per la nostra salivazione azzerata e/o per l’ammutolimento dell’interlocutore.

Va da sé che, in entrambi i casi, il contesto modifica i modi, l’intensità e l’efficacia di questa asserzione volontaria o meno. E qui non si può non tentare di definire il contesto sociale di riferimento: in un determinato momento esso può coincidere con la famiglia stretta, la famiglia allargata, i propri amici, i propri colleghi, tutti gli altri.

Esistono livelli diversi di espressione modulati sulle proprie esigenze di comunicazione del sé, sui diversi contesti sociali in cui si è di volta in volta immersi, sulla diversa efficienza ed efficacia dell’esternazione.

Ma ovviamente tali contesti e il loro peso nella nostra percezione assumono valore diverso in ragione della nostra soggettività. Per alcuni è più facile essere sé stessi, e compiere azioni assertive, nei contesti più generici, per altri è più agevole esternare se stessi in contesti più intimi e familiari, con tutto lo spettro che sta in mezzo.

In molti casi fare CO significa cancellare o mutare radicalmente l’immagine che ci siamo costruiti in precedenza e che risulta difforme dalla realtà. E non parlo solo di immagine introspettiva di noi stessi ma dell’immagine che gli altri si sono costruiti con o senza aiuto, involontario, volontario o doloso, da parte nostra: le immagini che ognuno di noi, prima del proprio CO, ha costruito volente o nolente negli “altri”, non necessariamente mentendo, ma magari non smentendo delle assunzioni automatiche basate sul genere e sui dettami culturali fondati su quel genere.

In questo i bisessuali sono degli esperti, se non fosse che in realtà tutti noi, etero, bisessuali, omosessuali, fluid, queer, etc., quando diamo informazioni su di noi, tendiamo a valutare il rischio di farlo, ed è fuorviante ancora una volta pensare che lo facciamo solo in relazione all’orientamento sessuale.

Quante volte decidiamo volontariamente di tacere su un lato della nostra personalità solo perché non sappiamo se sarà ben accetta da chi abbiamo davanti o solamente perché non abbiamo voglia, in quel momento, di impelagarci in una discussione.

Alla fine rimane solo il fatto che in alcuni casi avvertiamo questo rischio come maggiore quanto più vicini siamo emotivamente alle persone con cui interagiamo, altre volte quanto più quelle sono esterne alla nostra cerchia affettiva (colleghi e conoscenti).

Dipende da noi, dalla nostra personalità, dalla nostra sfera di “agio”.

Ecco perché non giudicare qualcuno in un momento in cui decide di sorvolare sulla questione dovrebbe essere una norma universale.

Resta il fatto che è bene che ci si renda conto delle implicazioni, dell’importanza e della risonanza che può avere fare (o non fare) CO. Poiché non è fine a se stessa, ma è compiuta per alcuni scopi specifici, ognuno dei quali può avere molteplici sfaccettature o almeno conseguenze a breve medio e lungo raggio.

Uno scopo è prettamente personale, se si considera che affermare una cosa significa averla capita e accettata e questo, oltre all’auto-accettazione, porta ad un senso di liberazione dal peso della menzogna e, se non della menzogna, dello spettro esistente tra menzogna e verità che passa attraverso quello strumento utile e infido che è l’astensione dal dire la verità.

Molti ad esempio decidono o sono spinti a rimanere (in piena libertà) in quella fase. Altri prima o poi ne escono. Ma questo spettro si modifica in relazione al contesto, all’età, alle esperienze, all’opportunità.

Ciò che è accaduto a molti di noi, soprattutto bisessuali, è di aver provato prima una ripugnanza per la finzione da cui eravamo schiacciati, ossia far finta di essere etero, e solo poi il coraggio di dire apertamente di essere “diversi”.

Se si considera poi che per i bisessuali il discorso diventa ancora più complesso, torniamo al postulato che noi bisessuali siamo sempre considerati “a parte”.
Per noi il limbo del dire e non dire è più ampio.
Contemporaneamente più accogliente e sicuro da un lato e dall’altro più strisciante, onnipervadente, fino a rischiare di non scrollartelo più di dosso.

Ma è vero anche che, proprio nel caso della bisessualità, l’urgenza di verità e quindi di CO è, in certi casi, ancora più acuta.
Proprio perché siamo più tentati di usare l’espediente del “don’t ask, don’t tell” in ogni momento e contesto: invischiati come siamo, non solo in una società eteronormativa, ma anche in una imperante dicotomia di orientamento che ci vuole metà etero e metà omosessuali, etero confusi o gay/lesbiche timorosi.

Siamo come degli unicorni stesi perennemente su un lettino da analisi; lo psicologo ci suggerisce di credere in noi stessi (e già questo per un unicorno è un ossimoro) quando il primo a non credere in noi è proprio lui.

Un secondo scopo può definirsi strumentale, perché (appunto) serve in generale o in un determinato contesto a far smettere gli altri di presumere che tu sia eterosessuale (o qualsiasi altra cosa sia la “norma” nel contesto culturale dell’interlocutore specifico) e contemporaneamente spinge (si spera) le persone attorno a noi all’eliminazione dei comportamenti che esse hanno e che possono indisporre se non ferire “involontariamente” (perché si presume che chi lo fa volontariamente sia escluso a priori dalle nostre cerchie, almeno in qualità di “famiglio”).

Quando in piscina i ragazzi sfottono il più lento della squadra, dandogli della donnetta o del gay e tu gli spieghi che il tuo primo ragazzo, che era gay perso, a vent’anni faceva 53” nei 100 a farfalla, allora ammutoliscono tutti. Non tanto per il CO, quanto per lo smacco…

Infine non va trascurata la funzione educativo/politica, che fa capire alle persone che “gli omosessuali non si trovano solo in speciali grotte rivestite di Swarovski” (cit. di un amico prezioso che mi ha aiutato per questo sproloquio) “e di conseguenza porta alla creazione di una massa critica di visibilità, al peso politico ed economico (si pensi alle pubblicità orientate ai gay) etc”; e le persone bisessuali non sono solo dei compulsivi del sesso a cui basta un pezzo di carne purché sia caldo.

È interessante poi tener conto del fatto che vi sono diversi modi per tenersi al coperto. Da un certo punto di vista la “fluidità” è uno. Non, chiaramente, nell’identificazione in sé, ma nel tipo di uso che si può fare di quel concetto; sembra di assistere ad una tendenza nelle generazioni volta a negare l’utilità o l’opportunità del CO: “perché tanto per noi è normale andare con un uomo o con una donna indifferentemente”; e ad alcuni amici miei sembra di essere tornati alle “sperimentazioni” anni ’70 che servivano a nascondere l’omosessualità.

Si ha l’impressione che “mi piace tutto”, se è una posizione tanto quanto “oggi mi piace X, domani chissà”, allora sia utile alla società, mentre spesso “rifiuto etichette” viene usata quasi a non voler prendere una vera posizione, sia essa L, G, B, T, +.

Mi si obietterà che non è necessario prendere posizione. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che il CO è un esempio non solo per gli etero in ascolto, ma anche per i “futuri” LGBT+ in ascolto.

E poiché le etichette non sono sempre negative, appare un po’ da ignavi dire “rifiuto le etichette” mentre sarebbe auspicabile dire “la mia etichetta è che mi piace tutto, oppure oggi questo e domani boh”. In questo modo soprattutto noi bisessuali avremmo la possibilità e il privilegio di esporci, senza lasciare che il povero gay/bisessuale/etc. debba sentirsi il primo della sua specie a dirlo.

Allo stesso tempo però un altro mito che mi sento di tentare di sfatare è quello delle fasi. Molti di noi hanno sofferto molto e hanno odiato le volte in cui si sono sentiti suggerire l’idea che stessero attraversando un momento di transizione verso/da l’eterosessualità/omosessualità, tanto che abbiamo sviluppato un’idiosincrasia nei confronti delle famigerate “fasi”.

A volte tuttavia questa ripulsa non riesce a metterci nella prospettiva giusta. L’idea di essere in trasformazione non è sbagliata in sé; è come se accettare che parlino di noi bisessuali in termini di fase, ci riportasse necessariamente indietro a quando ci accusavano di essere confusi/mentitori.

Ed è paradossale, a mio avviso, proprio per noi NOI bisessuali; noi che non dovremmo temere di porci dubbi sul nostro percorso, sia che porti verso l’eterosessualità, sia verso l’omosessualità, sia che rimanga bi-pan-ect.

Le “fasi” tanto odiate in realtà permeano tutti gli aspetti della nostra personalità. Perché non la nostra sessualità?

Tanto più che, per noi Bi, non è necessariamente più difficile capire cosa sia evoluzione e cosa sia accettazione rispetto a etero/gay/lesbiche, dal momento che abbiamo i medesimi meccanismi di presa di coscienza e accettazione (non appartenendo a specie diverse).

E di certo non possiamo farci perennemente condizionare da uno stigma storico rimuginando sempre sugli anni ’80, quando molti gay si definivano bisessuali per non dispiacere alla mamma che voleva il nipotino.

Io stesso, come molti bisex (non tutti), ho vissuto un periodo in cui pensavo di essere gay, e molti (come me) non hanno saputo da subito di essere bisex. Anzi io sono passato dalle esperienze adolescenziali miste in cui non mi ponevo la questione, alla ragazza trombamica ante litteram, all’innamoramento folle per il mio primo ragazzo, alle delusioni e follie sessuali, alla grande storia passionale con la donna che mi ha spezzato il cuore, etc. etc. Quindi che cazzo di paura bisogna avere delle fasi?

Nel mio caso, come per molti bisessuali, la comodità di vivere una vita aderendo alle convinzioni della gente, nel momento in cui trae conclusioni dal tipo di coppia in cui sono impegnato è impagabile. Fino ad un certo punto…

Gli anni passano mentre tu fai esternazioni bisessuali che non vengono prese sul serio dal tuo gruppo gay che crede che tu sia gay perché stai con un ragazzo da parecchio tempo. Gli anni passano anche quando la tua cerchia di amici, che ti conosce da quando stai con la tua compagna, crede nella tua verve burlesca quando fai apprezzamenti sui maschi.

Prima avevi deciso che il CO era una cosa tua; che la gestivi tu; che non dire a qualcuno che sei bisessuale fosse un elemento accidentale, dal momento che tu sei più della tua sessualità e dal momento che non sei costantemente costretto a definire i termini della questione. Puoi tranquillamente evitare di parlarne con la tua compagna perché tanto non si parla mai di (she)ex -e quindi anche di (he)ex-. Del resto non ti neghi di fare apprezzamenti su gli uomini né sulle donne e lasci all’intuito della persona che ami l’arduo compito di dire il non detto.

Poi succede qualcosa, nella tua vita, che ti fa vedere quanto sia terribile essere isolato, inabile a fare molte delle azioni quotidiane, inutile, pieno di voglia di fare e impossibilitato a fare, e ti monta dal profondo una nuova necessità.

Questa nuova condizione di incertezza, arrivata casualmente, ti fa sentire impotente, diverso; alla memoria risalgono momenti della tua vita in cui ti sei trovato sull’orlo del baratro proprio per esserti sentito solo come persona prima che come bisessuale; e capisci che l’unico modo di uscire da questa depressione è comunicare ad un livello diverso; capisci che c’è una linea sottile che separa quel momento in cui stai per dire una cosa dall’istante in cui l’hai detta.

Quella parola aprirebbe un processo di liberazione ma anche una più profonda presa di coscienza e non la dici perché “non è necessario”, “non è opportuno”, “è fuori luogo perché indelicato verso la persona che ami”.
Capisci che ne vuoi parlare, non perché sia un problema (non lo è più da tanto tempo), ma perché vuoi che ogni momento della tua vita sia pieno di possibilità di comunicare.

Leo

2 thoughts on “Closet vs privacy – seconda parte”

  1. Le tue parole mi colpiscono molto, ma io ho sempre questo dubbio quando mi interessa una persona e nasce una relazione : come si fa a decidere se dirglielo e rischiare di perderla o non dirglielo e rischiare di perdere la qualità del rapporto per questa mancanza di sincerità.. non capisco cosa sia peggio.
    Grazie, ciao

  2. ciao Lilith, grazie. In realtà, come ci hanno ripetuto allo sfinimento (anche se serve a poco) non c’è una regola. Il SE, il COME, il QUANDO e il PERCHE’ fare CO dipendono dai tuoi tempi. Tua è anche la responsabilità di fare o non fare CO e questa credo sia una delle cose più preziose. In un’altra prospettiva, ho imparato che dipende molto da cosa consideri come “perdita”; “perdita” èl’allontanamento di una persona che non ti accetta, ma “perdita” è anche la mancanza della possibilità di farsi una vita con qualcuno che ti accetta davvero. “Perdita” è dover cambiare (a volte) gran parte del proprio mondo dopo aver fatto CO, ma “perdita” è anche rinunciare a se stessi per vivere costantemente nascosti. Take it easy! In bocca al lupo! Leo

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